Rivista per le Medical Humanities

Si tratta di uno «spazio espositivo» che arricchisce mediante illustrazioni ogni numero della rivista. Troverete pubblicati in questa sezione solo una fotografia di ciascun autore e il commento alle immagini proposte all'interno del numero. La pubblicazione integrale del portfolio la riserviamo, infatti, ai lettori e agli abbonati della versione cartacea della nostra rivista.

nota di Bruno Monguzzi

Fotografia di Paolo Monti



          Anderson Galleries, New York, primavera del 1921. Tutta una stanza della retrospettiva di Alfred Stieglitz è dedicata a Georgia O’Keeffe.                       
           Avendo sentito alcuni acidi commenti—sarebbe stato il soggetto, più che il fotografo, ad aver reso le fotografie splendide—Stieglitz si mette a fotografare il cielo, che, come puntualmente rileva, è disponibile a tutti.
           La prima serie la intitola «Music», la seconda «Songs of the sky», poi, tutti i cieli successivi, «Equivalent». Per una volta ancora il grande padre della fotografia americana aveva tracciato una via.
           Stieglitz muore nell’estate del 1946.
           In Italia, a fotografare il cielo comincia Paolo Monti, un distinto e colto quarantenne bocconiano, dirigente d’industria, cresciuto tra le lastre e le apparecchiature del padre fotoamatore. Nel 1947, da due anni a Venezia, fonda con un paio di amici il circolo fotografico «La Gondola» che nel giro di pochi anni si impone sulla scena internazionale come movimento d’avanguardia.
           Agli inizi degli anni Cinquanta Monti decide di cambiare lavoro e torna a Milano per dedicarsi alla fotografia. Documenta la Decima Triennale di Milano dando poi inizio a vaste campagne di rilevamento e censimento fotografico e a una feconda attività editoriale.
           Per sé continua a fermare le nuvole, lo farà per tutta la vita.
           Maestro fondamentale della fotografia italiana del secondo dopoguerra, Paolo Monti muore alla fine del 1982. È sepolto a Anzola d’Ossola, amato luogo d’origine del padre, dove aveva svolto gran parte del proprio lavoro sperimentale – la materia, l’astrazione, i chimigrammi – e dove infinite volte aveva inquadrato le sconfinate improvvisazioni aeree.
           Le sue cantate celesti, scritte dal vento.

Bruno Monguzzi

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