Rivista per le Medical Humanities

Oltre il giardino
Regia Al Ashby, USA, 1979

Se cercate un racconto, che percorra il crinale che sta tra etica
e tecnologia, più esattamente tra bioetica e biotecnologia, tornate
a guardare Oltre il giardino (Kosinski, l’autore del libro Presenze,
da cui è tratta la pellicola, riadatta lui stesso il testo per lo schermo).
Film delicatissimo su un giardiniere semideficiente e teledipendente,
timido e analfabeta, che grazie alla sua eleganza viene
scambiato per un consigliere-guru di livello nazionale. Si può
leggere il film come una parodia della società mediatica Usa, superficiale
e retorica. Ma lo si può anche leggere come un dialogo
tra bios e techne, due termini che lo sconosciuto giardiniere, senza
origini, senza futuro, riesce a ospitare dentro di sé.
Chi si occupa delle pratiche di cura sa infatti che tre polarità devono
essere messe in tensione e coniugate in forme degne: la
tecnica, la vita, la persona. Con la vita abbiamo rapporti simili
a quelli di chi coltiva un giardino. Diciamo di un paziente: «ha
energie», «crescerà», «reagirà», «risponde alle cure». I viventi sono
capaci di funzioni, che la materia inorganica non possiede:
mantengono il loro equilibrio, si riproducono e hanno finalità
intrinseche, come se un’intelligenza nascosta li guidasse a costruirsi,
ripararsi ed edificare progetti, per quanto è possibile, da
sé. Forse proprio perché ha poca coscienza critica, il giardiniere
del film parla delle piante e dei fiori come amici, muti ma affidabili.
Egli «sente» i loro bisogni, gode del loro sviluppo. La vita ha
una sua «tecnica» interna, ha meccanismi e forze, che possiamo
intuire e facilitare.
La tecnica, la tecnica della politica e quella dei talk show, la tecnica
degli affari e quella dell’erotismo, è un mondo incomprensibile
ed estraneo al giardiniere, eppure egli è incantato dalla televisione,
che è l’unica sua finestra sul mondo dell’uomo tecnologico.
Come mai? Potremmo rispondere con un’osservazione
molto acuta del filosofo francese Canguilhem: la tecnica è il prolungamento
dell’astuzia con cui la vita del corpo raggiunge i
suoi fini. Se il ventre non digerisce, la mano lo accarezza e lo riscalda;
se la gamba non si muove bene, l’animale (non solo l’animale
uomo) sperimenta tattiche e protesi per superare gli ostacoli.
Questo è il motivo per cui le metafore botaniche, con cui il
giardiniere legge i fenomeni culturali più complicati, funzionano
a meraviglia e conquistano i giornalisti che lo intervistano. Lo
stesso pensiero più evoluto, la stessa tecnica del pensare, come
ricordava lo psicoanalista Bion, è a suo modo un organismo vivente.
Studiare è come alimentarsi, riflettere è come digerire, ricordare
è come assimilare, rimuovere è come evacuare.
Insomma c’è la vita dentro la tecnica, poiché quest’ultima impara
dalla vita.
Governo della tecnica e cura della vita si intrecciano nel servizio
alla persona sofferente. Ashby propone una splendida sequenza
in cui due pazienti sono visti assieme e le loro malattie si incrociano
davanti agli occhi del medico residente. Da un lato v’è
l’anziano moribondo di anemia aplastica, che ha umanizzato la
tecnica medica portandosela a domicilio: ossigenoterapia, trasfusioni,
dialisi, infermiere.D’altro lato v’è il giardiniere, che ha
avuto un banale trauma ortopedico e che riceve con riconoscenza
le premure di chi lo circonda, stabilendo un’amicizia immediata
con l’altro malato, al quale riserva una pietà infantile ma
leale, tenace. La persona è l’alleato cui il medico, l’infermiere,
i tecnici promettono fedeltà. Senza questa fedeltà, che consiste
in uno scambio di promesse, si svuotano e fraintendono le tecniche
della comunicazione, i consensi informati, le competenze
scientifiche, la perizia chirurgica. Allearsi significa consentire
all’interlocutore più fragile di svolgere il filo narrativo della sua
vita secondo lo stile e i valori, che egli ritiene propri. Il vecchio
miliardario ama incontrare il Presidente e farsi trovare in forma
da lui. Il giardiniere attraversa la vita come camminando sulle
acque (l’ultima sequenza), nel miracolo di uno sguardo, che solo
i bambini possiedono.
Come si può però aiutare un malato a prendere decisioni complicate
e come si può prendere tali decisioni assieme a lui, se non
si entra nel suo mondo, non si percepiscono le sue paure, non
ci lascia contagiare dalle sue speranze, non si abita l’architettura
morale della sua esistenza? Nel mio libro Bioetica clinica e
consulenza filosofica, Apogeo, 2008, ho paragonato il consulente
etico ad un taxista, che conduce il cliente verso le mete che questi
preferisce. Fuori di metafora: noi possiamo, dobbiamo aiutare
i nostri malati ad approfondire il loro personale punto di vista,
viaggiando assieme a loro, proponendo gli itinerari più sicuri,
promettendo che staremo dalla loro parte. Ecco perché il giardiniere
ha successo quando ripete l’ultimo pezzo delle frasi altrui:
rimanda, come fanno gli psicoanalisti, i pensieri a chi li ha pensati,
affinché possano essere meditati e detti meglio.
La tecnica (biotecnologia compresa) aiuta e corregge la vita, in
nome del valore della persona. Lavora come un giardiniere. Ma
non solo. A volte deve sostituirsi alla vita, quando questa è segnata
da un male assurdo, straziante. Nel filmInseparabili,Canada
1988, regia di David Cronenberg, con Jeremy Irons e Geneviève
Bujold, è descritta in modo memorabile questa pretesa, che porta
alla scissione, alla schizofrenia dei due gemelli ginecologi. Uno
di loro cerca di costruire strumenti chirurgici perfetti, belli come
opere d’arte, unici, insostituibili. Agli strumenti devono adattarsi
le pazienti e non viceversa. La tecnica prende una strada disumana,
e il film di Cronenberg disegna un destino di follia, che è
l’esatto contrario dell’accettazione leggera, facile, smemorata,
che il giardiniere di Ashby propone. Ma anche nel film di Ashby
c’è la rabbia, la rivolta grintosa del ricco business man: perché
devo morire proprio adesso, con tutte che cose che ho da fare?
E per di più di una malattia che colpisce generalmente soggetti
giovani?
Qui si aprono le domande etiche decisive: perché accettare la
morte? Perché non controllare l’inizio e la fine della vita? Perché
non modificare geneticamente gli organismi? Perché non mettere
mano sull’orologio biologico? Perché non riscrivere in forme degne
e felici quello che la natura scrive in maniera innocente e crudele?
E a chi spetta la Governance della tecno-scienza? Ai tribunali,
ai comitati d’etica, ai Forum del terzo settore, agli Office for
Technology Assessment, o alla società nelle sue prerogative democratiche?
Ma questa società è fatta anche di ingenui oligofrenici
come il giardiniere, che assimila acriticamente e mima modelli
televisivi; come fidarsi dunque della «gente»? Come prevenire
il populismo interessato? Infine, la vita è brevettabile? È proprietà
di qualcuno?
La delicatezza del giardiniere di Ashby, un giardiniere che si chiama
Chance – come a dire che questo individuo al limite della follia
è forse l’ultima speranza per non violentare la vita – contrasta
con la temerarietà faustiana del protagonista de Il Dottor Jekyll
e Mr. Hyde, Usa 1941, di V. Fleming, con Spencer Tracy e Ingrid
Bergman, un film dedicato a chi, di fronte allo scandalo della malattia,
vuole mettere le mani nel cuore della vita, sperimentando
sugli animali e su di sé un siero che liberi la potenza del bios, senza
i freni della morale (di quella puritana e bigotta, che colora la
società, in cui il medico ricercatore vive). Mentre Ashby propone
l’imitazione della vita come nuova etica, Stevenson (l’autore letterario)
e Fleming (il regista) propongono la tecnica come nuova
etica e la libertà come trascendimento delle frontiere che la vita
impone. Costi quel che costi.
Del resto il dilemma tra modificazione (che è neutra moralmente)
e manipolazione (che invece ha una connotazione negativa,
come manomissione, raggiro, contraffazione, imbroglio) è una
questione che riguarda anche il cinema. Occorre credere a un
film, come ad ogni testo letterario, per capirlo, ma ogni pellicola
contiene un inganno, una finzione, una manipolazione dei fenomeni
ottici e delle visioni morali. Siamo come il giardiniere
Chance: incantati davanti a un sogno e lusingati da messaggi stupidi.
La competenza narrativa, che gli operatori sanitari imparano
dalla critica letteraria, li aiuta a prendersi cura di una storia
di malattia, mettendo la tecnica al servizio di una vita personale.

Paolo Cattorini
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