Rivista per le Medical Humanities

Profumo di donna
Regia Dino Risi, Italia, 1974

Quando un film mostra un cieco, sta parlando di cinema. Sta esplorando l’esperienza mancata del vedere, esperienza che gli spettatori vivono quando si fa buio in sala, quando compare la scritta The End ed ogni volta che una nera dissolvenza amputa il dono delle immagini. Senza questa offerta vitale, che nutre e assieme ferisce le nostre retine, dove saremmo? Prima ancora, chi saremmo? Forse staremmo accarezzando una tigre, in balia di un serial killer, come la ragazza di Manhunter (Mann, 1986). Oppure patiremmo il carcere/scafandro dello sventurato paziente in sindrome locked-in, prima che la sua palpebra sinistra, miracolosamente, si alzi come uno sipario o una farfalla nel film di Schnabel (2007). Niente di peggio del buio, per chi va al cinema. Protesteremmo con la biglietteria e ce ne andremmo a casa. È quindi comprensibile che un ufficiale in pensione, famoso per la sua forza fisica, le sue doti di cavallerizzo e la sua sensuale voglia di vivere, pensi di farla finita.
Il suo viaggio, da Torino a Genova e poi a Roma e a Napoli è come una via crucis al contrario, un dopo-morte che cerca una liberazione, un programmatico avvicinarsi al gesto finale, dopo aver contattato qualche scampolo di ricordi e sentito ancora gli odori che ama. Odori di città e di donne, come appunto titola Profumo di donna [Italia 1974, regia di Dino Risi con Vittorio Gassman, Agostina Belli e Alessandro Momo] da un romanzo di Arpino, Il buio e il miele, del 1969 e rifatto senza il genio di Risi e senza l’agghiacciante interpretazione di Gassman come Scent of a WomanProfumo di donna [USA 1993, regia di Martin Brest, con Al Pacino e Chris O’Donnell]. Gassman, che soffrì a lungo di disturbi depressivi, incarna il precario equilibrio di un uomo morso dal male. L’esplosione di una bomba a mano lo ha reso non vedente e gli ha tolto un braccio. Ma la prevedibile caduta malinconica è frenata, raggelata, incistata dietro una maschera, è il caso di dirlo, la maschera di uno strabico gaudente, fatta di cinismo, euforia, alcolismo, tratti scorbutici, promiscuità sessuale, aggressività, dispotismo. Lo grida lui stesso con lealtà: l’immaginazione (proprio quella che ci sorregge come spettatori, quando lo schermo si oscura) gli è stata strappata e lui non può, non vuole vedere oltre. Eppure il viaggio è anche una scommessa: forse una parola (come il brevissimo incanto del prete, che gli parla di un senso del soffrire, di un destino invidiabile di lotta con il dolore), forse un gesto possono scrivere un altro capitolo di una vita, che cerca il cut finale, poiché non «vede» più nulla.
I veri spettatori del dramma, a parte le prostitute, i ruffiani, i camerieri, altri ciechi fragili come lui, altri militari accecati da infantile orgoglio, sono un ragazzo, uno studente, soldato in licenza, incaricato di fargli da attendente (Momo) e la bellissima ragazza (la Belli) di cui il protagonista, inspiegabilmente, porta una fotografia in valigia, accanto alla pistola. Di Momo sentiamo i pensieri, i monologhi interiori, dunque il narratore ci vuole vicini a lui, dentro a lui, negli occhi incuriositi e bistrattati (come sempre accade a chi va al cinema) di chi accompagna un malato potenzialmente terminale, esplora il mondo attraverso gli occhi mentali di un altro e ne regge le scomposte reazioni: isolamento, rabbia, diniego. Insomma le turbolenze, ben note agli psicologi, di chi non sa venire a patti con il limite e che cerca ancora un simbolo di dignità, un segno di liberazione, in nome di quel desiderio di vita, che struttura l’architettura etica al cui riparo viviamo e che nessuno psicologo può espropriare o catalogare. C’è infatti una Heimweh che è la nostalgia di una casa o di un corpo, come quello sano, che conoscevamo e in cui vorremmo tornare a dimorare; e c’è una Fernweh, una nostalgia di altrove – come quella di cui parla il monumentale film Heimat di Edgar Reitz – che non tocca la psiche, ma l’intera persona, poiché annuncia, promette una liberazione che sta sempre oltre ciò che pensiamo di possedere. Qui non si tratta di ricostruire, ma di inventare, o meglio di ascoltare melodie mai udite, di immaginare la musica del nostro esser ciechi, una musica che sia l’unica nostra ed assieme possa proporsi come degna dinanzi a tutti.
Questa ricerca di senso è attratta dall’icona di una ragazza, splendida e paradossalmente innamorata di lui da sempre, prima ancora della disgrazia. Ma lui la respinge, poiché ne sente il fascino e prevede ciò che comporterebbe dirle di sì: ribaltare i propri valori, rinunciare alla spavalderia, sentirsi lacerato dalla malinconia, accettarsi cieco e monco, vile e delicato (non ha il coraggio di spararsi o forse intuisce che ci vuol più coraggio per non spararsi e fidarsi della residua bellezza, che la vita documenta), lasciarsi accudire nella propria dipendenza, non poter vedere il volto e il corpo di colei chi ci salva. Il film narra dell’esperienza di ogni patologia cronica, in cui il malato cerca un attaccamento saldo ma non umiliante, una resa consapevole ma non codarda, una resistenza (al male) tenace ma non accanita. Le devozione del ragazzo e l’innamoramento della giovane sono le uniche garanzie, forse affidabili, per strapparsi quella maschera demoniaca di satiro dissacratore, di istigatore al suicidio, di finto lussurioso.
Chi non vede è per forza maggiore un oracolo. L’oracolo «vede» e dice cose ambigue. In questo film l’oracolo si fa guidare dall’olfatto. Sente per primo i profumi, con le loro seduzioni e le loro menzogne. Dietro i gesti da spaccone e le recite da istrione, l’oracolo avverte che il profumo, che la vita emana, il profumo di una donna e il profumo del mare e quello di ogni altra cosa, non è inventato da lui. Gli si può dire di sì, inseguirlo, e concedersi ad esso. Oppure si può rifiutarlo, rimuoverlo e sommergerlo con odori più forti. L’oracolo è sotto lo scacco del dilemma morale, se dire di sì o di no alla promessa, che la vita, offesa ma ancora densa di profumi, eleva. Un film sulla cecità, un film sugli sguardi che si occupano della cecità, un film sulla cecità che il cinema provoca e guarisce.

Paolo Cattorini
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