Rivista per le Medical Humanities

Sabato

Ian McEwan
Einaudi
Torino, 2005  


Così come, per George Steiner, «i libri costituiscono la ‘password’ per diventare migliori di quello che siamo», per le Medical Humanities, la letteratura ha il potere di allevare curanti migliori. È anche in questa prospettiva che può essere letto Sabato di Ian McEwan. Già in Espiazione lo scrittore inglese aveva abbozzato nelle aspirazioni dello studente Robbie Turner l’idea che un passato da umanista possa porre le basi per un futuro da buon medico. In Sabato, l’interazione fra letteratura e medicina si articola invece nelle inclinazioni, negli abiti, nello stile di vita dei personaggi principali. La questione è manifesta, gli schieramenti dichiarati. Se il protagonista, Henry Perowne, neurochirurgo di successo, non apre un libro se non per ragioni di studio, barricandosi dietro la convinzione «di aver visto morte, paura, coraggio e sofferenza quanto basta per alimentare una dozzina di letterature», suo suocero Grammaticus, illustre poeta, non perde occasione per ostentare di fronte al genero la presunzione della propria superiorità non solo intellettuale ma anche morale. È alla terza generazione, incarnata da Daisy, figlia di Henry e poetessa in erba, che McEwan affida la mediazione disciplinare e la tardiva educazione letteraria dello scettico chirurgo. Ma oltre che nei rapporti fra i caratteri principali, la tensione fra medicina e letteratura traspare, in filigrana, anche dalla trama stessa del racconto.
Sabato è il minuzioso resoconto di una giornata particolare: sabato 15 febbraio 2003. Volendo forzare un’analogia, per Perowne, il 15 febbraio 2003 si scandisce - alla stregua del 16 giugno 1904 di Leopold Bloom nell’Ulisse di Joyce - come una giornata-odissea. Il cardine di questo travagliato giorno di riposo del neurochirurgo londinese è l’incidente automobilistico con Baxter, un giovane attaccabrighe scortato da due maneschi scagnozzi. E come Ulisse, Perowne riesce a scongiurare la sciagura ricorrendo a un’astuzia. Per sfuggire al pestaggio, Perowne si avvale del sul suo sguardo clinico: «legge» nella mimica, nell’occhio di Buxter-Polifemo i primi segni di una corea di Huntington. La diagnosi (già nota a Baxter, ma non ai suoi compari) distrae i teppisti-ciclopi, trasformando la contesa in un consulto. Scampato alla rissa, Perowne può reimmergersi indisturbato nella sua giornata, mentre Baxter, smascherato ed esautorato di fronte ai suoi infidi tirapiedi, incuba la vendetta. Al secondo assalto, teso in serata da Baxter all’intera famiglia Perowne, la riproposta dell’espediente scientifico, le prognosi infondate, il miraggio della sperimentazione clinica si riveleranno del tutto inefficaci. Sarà invece una poesia recitata da Daisy su suggerimento di Grammaticus a disarmare l’aggressore. Il punto di fuga del romanzo di McEwan può essere visto proprio nella «pubblicazione» della diagnosi da parte di Perowne. Chi scrive non imputa al neurochirurgo un abuso di autorità, ma la completa mancanza di capacità di immedesimazione, di empatia. L’occhio clinico di Perowne si dimostra cieco di fronte alla mortificazione subita da Buxter, non ne intuisce le conseguenze psicologiche e sociali. Le dettagliatissime descrizioni delle operazioni chirurgiche effettuate da Perowne non lasciano dubbi sulle sue competenze tecniche e sulla sua conoscenza del cervello umano. È però lecito chiedersi se una maggiore dimestichezza con la letteratura ne avrebbe accresciuto la sensibilità, favorendo così la sua comprensione della mente, dell’animo umano. Avendo letto per esempio l’Idiota, Perowne avrebbe forse intuito quanto si possa essere umiliati e offesi da una diagnosi pubblica?

Chantal Marazia
top