Rivista per le Medical Humanities

Testamento biologico. Idee ed esperienze per una morte giusta

Giorgio Cosmacini
Il Mulino
Bologna, 2010

Giorgio Cosmancini, medico, storico e filosofo della medicina, docente presso l’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, ha pubblicato nel gennaio 2010, per la casa editrice Il Mulino, un testo di agile lettura, ma assai carico di temi e spunti di riflessione per tutti coloro – non solo gli «addetti ai lavori» – che si interrogano sulle questioni cruciali dell’esistenza, specie nelle sue fasi ultime: la morte e il morire. In particolare, l’autore dichiara esplicitamente che il testo si occupa «del diritto di chi muore di far valere le garanzie dovute a se stesso nel rispetto della propria identità personale». L’intento dell’opera trae origine primariamente dalla questione, di stretta attualità nel dibattito scientifico, politico e culturale italiano, del testamento biologico e i temi di rilevanza etico-sociale a esso connessi, dal polmone d’acciaio fino alle cure palliative, che giovano alla quantità e alla qualità della sopravvivenza, ma generano problemi di «etica della vita». L’autore esamina tali tematiche primariamente da un punto di vista storico-filosofico, senza però tralasciare l’importanza del ruolo del medico, la figura che è maggiormente coinvolta nell’esperienza del morire altrui, offrendo, infine, un suo personale punto di vista in merito alle questioni bioetiche esaminate.
Per Cosmacini il testamento biologico ha un ruolo chiave in molte problematiche etiche, come ad esempio lo stato vegetativo permanente (SVP). Infatti il vero dilemma in gioco, a suo dire, è se il permanere in una vita meramente vegetativa può far considerare morto un paziente sopravvivente solo in modo artificiale o fittizio. Il fatto che in lui possa venire dimostrata con mezzi tecnici e con dati scientifici una qualche attività, spontanea o provocata, probativa per il persistere di una sia pur minima coscienza residua, porterebbe a dover sottoporre a revisione critica la concezione e la diagnosi di morte cerebrale, con evidenti ricadute in campo trapiantologico, e porterebbe a dare più voce a chi considera l’interruzione della terapia artificiale di sostegno come vera e propria eutanasia. In merito poi al quesito se il lasciar morire naturalmente rinunciando a ogni trattamento artificiale di sostegno vitale sia un «pietoso» desistere dall’accanimento terapeutico o viceversa un «colposo» dare la morte a chi ancora vive, la risposta, dice Cosmacini, merita una considerazione più ampia, in quanto il vivere e il morire sono storie di vita coinvolte ambedue in una pluralità di livelli interpretativi, implicano una distinzione tra la loro descrizione (aspetto logico) e la loro valutazione (aspetto morale). Pertanto, ad esempio, è possibile distinguere vita biologica (oggetto di descrizione) e vita umana (oggetto di valutazione). La prima è la mera sopravvivenza dell’organismo, la seconda è la vita biografica della persona, di cui fanno parte passioni, interessi individuali, motivazioni proprie, affetti, scopi, progetti, tutto ciò che fa di un individuo un unico. Quando la vita biografica è impedita da una malattia tormentosa, inguaribile e ingravescente (come nel caso di Welby) o da un’irreversibile perdita di coscienza (come nel caso di Eluana Englaro), la vita biologica, dice l’autore, può essere interrotta da una pietas che è il rispetto dell’altrui identità ed è l’unica manifestazione autentica della «proprietà riflessiva » dell’amore che lega chi vive a chi muore. Nel caso di pazienti, come Eluana, che hanno perduto la coscienza e la capacità di comunicare le loro scelte, valgono per tali scelte le testimonianze documentate; per chi è in possesso delle proprie capacità decisionali, valgono le direttive anticipate sui trattamenti cui intendono rinunciare quando il loro morire dovesse passare attraverso un tempo più o meno lungo di stato vegetativo permanente.
Quanto al medico, il suo compito deve essere quello di procedere all’assolvimento di un rapporto personalizzato globale con il paziente, dove il consenso informato (corrispettivo pratico del principio di autonomia) sia finalizzato alla tutela dei diritti altrui più che all’autotutela dei convincimenti propri. Solo così il consenso rimane un atto etico, rispettoso delle dichiarazioni di volontà concernenti la vita biografica umana della persona che muore. Pertanto, ritiene Cosmacini, il testamento biologico merita il nome di testamento biografico, termine ritenuto più appropriato, affrancato dal riduzionismo biologico.

Silvia Siano   
top