Rivista per le Medical Humanities

L’etica di fine vita

Fabrizio Turoldo
Edizioni Città Nuova,
Roma, 2010

Il testo di Fabrizio Turoldo si presenta come opera di agile lettura, sintetico nella struttura ma molto denso di contenuti e spunti di approfondimento su tematiche di bioetica. Appare inoltre costantemente presente il rimando al pensiero di Paul Ricoeur, autore oggetto di particolare e intenso studio da parte dello stesso Turoldo. Il testo prende avvio da un concetto fondamentale, già espresso a partire dall’introduzione: anche se la bioetica è percepita dall’opinione pubblica come etica dei limiti e dei confini da non superare (pena la minaccia per realtà preziose, come la dignità umana), questo non può essere il suo unico obiettivo, perché un’eccessiva attenzione ai confini porta a perdere di vista il «centro », che consiste, fondamentalmente, nell’indagare il significato della vita, anche quando si trova in situazioni di sofferenza, e nel definire i contenuti dell’etica delle virtù e i veri valori da perseguire e sostenere, tramite le scelte e le norme giuridiche. Turoldo ha scelto di dedicarsi proprio al tema del limite, nell’ambito della fine della vita umana, però solo dopo essere passato dal «centro», cercando cioè di rispondere alle domande cruciali sul come prendersi cura della vita umana, in particolare della vita dei malati, e riflettendo su cosa ci leghi tanto all’esistenza altrui da spingerci ad assumerne la responsabilità. Il libro, dice lo stesso autore, è dedicato alla critica del riduzionismo medico, a una prospettiva culturale, figlia dell’iperspecializzazione scientifica moderna, che tende a ridurre la persona al suo organismo, e il malato alla sua malattia. Le varie riflessioni che vengono proposte al lettore hanno come obiettivo il mostrare come «umanizzare le cure» non significhi soltanto dare maggiore autonomia al paziente, né, tantomeno, avere solamente una maggiore attenzione per il suo consenso informato. La prima parte del libro mette infatti in evidenza il ruolo della cura, secondo le prospettive della bioetica della femminilità, con l’effettivo contributo che essa fornisce alla prassi socio-assistenziale, e un chiaro richiamo a sostenere la formazione umanistica del personale sanitario, elemento fondamentale per la stessa efficacia dell’azione di cura rivolta ai pazienti. Il modello a cui ispirarsi, la figura per eccellenza del medico saggio e capace di vera empatia (equilibrio fra prossimità e distanza, tra coinvolgimento e distacco), è ancora un personaggio tratto dalla tradizione dell’epos: il centauro Chirone, inventore della medicina e maestro di Asclepio. Anche dal racconto epico emerge infatti il tema della vera esperienza, che dovrebbe sempre caratterizzare la relazione e la comunicazione tra medico e paziente: Apollodoro racconta che Chirone divenne un grande guaritore solo dopo essere stato colpito in modo insanabile da una freccia avvelenata; proprio questo stato cronico di malattia gli permise così di possedere una grande sensibilità e capacità verso coloro che soffrono, potenziando perciò le sue qualità terapeutiche. In seguito l’analisi di Turoldo si concentra sul tema dell’autonomia; l’autore mette in evidenza come l’autonomia, così come viene concepita in senso moderno, sia intesa solo da un punto di vista cognitivo: è l’autonomia di un soggetto adulto, sano, in grado di intendere e di volere. Ma, dice Turoldo, uno dei compiti più importanti della bioetica, oggi, consiste proprio nel mettere in discussione un’autonomia viziata da una tale ipertrofia cognitiva, a partire dalla sfida lanciata dalle malattie neurogenerative, i cui malati possono esprimere un’autonomia non lineare, ma puntuale, un’autonomia del momento, residuale, che però è possibile cogliere, soprattutto attraverso un’attenzione particolare al linguaggio non verbale, specie allo sguardo. A riguardo, Turoldo si richiama a Merleau-Ponty, che parlava di una sorgente di autonomia che non emerge da ciò che sono capace di percepire, ma dalla capacità che io ho di essere percepito. Allo stesso modo Paul Ricoeur parla di una «attestazione», di una fiducia, nel nostro poter fare, che consiste nel riconoscimento e nell’approvazione che ciascuno di noi riceve da se stesso e dagli altri. Dunque, conclude Turoldo; c’è una duplice fonte dell’autonomia: quella che io riesco a esercitare e l’autonomia che altri mi riconoscono. Questo discorso trova riscontri nella pratica quotidiana, un esempio ne è il caso di Terri Schiavo. Turoldo evidenzia come il malato apparentemente privo di autonomia non è un problema per se stesso, ma sono gli altri che possono esserlo per lui, nella misura in cui non lo considerano più una persona in grado di esprimere un’autonomia residuale e degna di rispetto: Turoldo sottolinea altresì che l’uomo, finché vive, è unità di anima e di corpo. Noi siamo abituati a una rappresentazione contemporanea di tutto il corpo e tutta l’anima, ma ci sono invece anche stadi di oblio dell’anima, in cui essa resta sullo sfondo e il corpo rinuncia a parlare di linguaggi, perché l’anima non gli è totalmente presente; eppure, rimangono ugualmente un’unità.La seconda parte del volume entra infine nel merito dell’attuale dibattito sul limite delle cure mediche, sull’accanimento terapeutico, sull’eutanasia e sul testamento biologico, ricostruendone la storia attraverso i principali documenti e l’analisi dei casi più noti. Il libro si conclude poi con un paragrafo che ripropone all’attenzione del lettore i «problemi aperti» del testamento biologico, strumento ritenuto utile perché consente di valorizzare le scelte personali, ma che porta con sé anche dei limiti, costitutivi e ineliminabili, come il rischio per cui chi lascia direttive anticipate non sia necessariamente stato ben informato, o il fatto che molti confini sono labili e il medico si trova spesso costretto a interpretare con difficoltà i documenti scritti dal malato, perché la medicina è una scienza probabilistica. Di fronte a questi dilemmi, Turoldo suggerisce l’idea che l’incertezza di alcune prognosi e l’impossibilità di evitare del tutto l’astrattezza dei documenti costituisca un argomento contro il loro carattere vincolante e a favore di quello orientativo, quantomeno per alcune parti. Importante, infine, risulta il ruolo del fiduciario, che può aiutare a superare l’astrattezza dei documenti, esplicitando il pensiero del paziente, e che può anche rappresentare i suoi interessi di fronte al medico.  

Silvia Siano
top