Rivista per le Medical Humanities

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La sezione intende offrire una panoramica sui territori delle Medical Humanities: congressi, istituzioni, pubblicazioni, film, cronache. Essa ospita, inoltre, le considerazioni di specialisti in merito ad articoli apparsi su altre testate. Questo spazio riproduce i contenuti della versione cartacea della pubblicazione; i contributi non legati alla periodicità del cartaceo si trovano invece nella sezione «Novità» di questo sito.


«The art of medicine»: le Medical Humanities conquistano The Lancet
rMH 6


Da metà gennaio, la prestigiosa rivista The Lancet dedica ogni settimana, «in riconoscimento del ruolo vitale delle scienze umane in medicina», un’intera sezione a contributi medical humanities. A inaugurare la rubrica, intitolata The art of medicine, è Arthur Kleinmann, medico e antropologo di Harward, noto per il suo lavoro pionieristico sulla dimensione narrativa della malattia (The Illness Narrative, New York, Basic book, 1988). Il saggio di Kleinmann, dal titolo prorompente e provocatorio (Catastrofe e cura: il fallimento della medicina come arte), promuove, rievocando remote esperienze personali, l’incorporazione delle scienze umane nella preparazione medica, incoraggiandone tuttavia una visione più critica. Egli chiede, infatti, che i programmi Medical Humanities vengano «sottoposti a una robusta valutazione formativa, misura che finora non è stata applicata».
Nella migliore tradizione MH, l’articolo è supportato da un’evocativa illustrazione: la scelta è caduta su Il medico, di Sir Luke Fildes (1891). Chi ha avuto l’occasione di vedere il quadro di Fildes, ricorderà che la figura del medico occupa il centro della scena, riproducendo una visione medico-centrica della medicina. Tale immagine sembra insinuarsi anche nel saggio di Kleinmann, quando sostiene che «le scienze umane e le scienze sociali interpretative sono davvero importanti per i dottori, e forse anche per tutti gli altri curanti». Un’incertezza che sembra più limitativa che congetturale. Una seconda restrizione sembra espressa nella spinta militante rivelata nella presentazione della rubrica. La redazione specifica, infatti, che la disposizione per questo «azzardo è cattolica», quasi a prevedere e a temperare le contese apparse nei numeri successivi della rivista sui contraccettivi orali e la visita del Pontefice alla Sapienza.

Chantal Marazia  

«Qu'est ce que soigner? L'avis d'un pédiatre»
rMH 6


Enseignement supérieur
en soins infirmiers
adultes et pédiatriques
2006  

Posto di fronte alla domanda «cosa significa curare?», il pediatra deve tradurre le abituali domande sul significato di questa parola nella situazione particolare in cui si trova chi si occupa di bambini.
Curare, nell’accezione abituale del termine, si riferisce alla relazione asimmetrica tra chi è malato e chi interviene in qualche modo contro la malattia. Questo modo di utilizzare la parola «cura » permette di comprendere atti di benevolenza, ma anche interventi secondo criteri precisamente stabiliti, quindi pertinenti a definite categorie professionali, guidati da precise intenzioni e mirati a obiettivi quali guarire, lenire, proteggere.
In un articolo pubblicato sulla rivista Enseignement supérieur en soins infirmiers adultes et pédiatriques, il pediatra Philippe Minodier parte da queste considerazioni per contrapporre l’idea di «curare» a quella di «curarsi». Per definire il termine di «curarsi », non è necessario ricorrere alla nozione di malattia: ci si cura per stare bene, per proteggersi, per prevenire qualcosa di nefasto. L’atto di «curare», invece, consiste in un gesto che viene dall’esterno ed è imposto a chi soffre; l’individuo malato, visto come colui che è costretto dalla malattia al caos e alla dispersione, ne può essere liberato tramite un processo di cura.
È necessario che tra il curante e la persona curata si instauri un rapporto di fiducia totale, poiché per essere curato «bisogna mettersi a nudo, esporsi totalmente, non nascondere nulla». Le premesse riguardanti il termine di cura danno spazio a considerazioni riguardanti la relazione tra il curante e il paziente, mettendo in risalto il fatto che «la parola è essenziale per esprimere un consenso». Come fondare una relazione di cura nella situazione in cui il paziente non ha l’uso della parola, per esempio il neonato?
Per un pediatra, le idee qui riassunte sono un’allettante invito a ragionare sui paradossi che il concetto di «curare» suscitano nell’ambito della medicina dei bambini e degli adolescenti. Partendo dagli spunti di Minodier vorrei esporre le mie considerazioni riguardo gli aspetti relazionali della cura del bambino. Si può partire dall’assunto che il «bambino» (il neonato, il bimbo, il ragazzo, l’adolescente) è un individuo in fase evolutiva inse rito in una delicata relazione con chi se ne occupa, cioè con chi lo cura. Questa relazione è caratterizzata da una contrapposizione: da un lato spicca la dinamica del bambino: esso continua a cambiare sviluppandosi, maturando, trasformandosi. Dall’altro lato l’adulto appare in una posizione statica, che sembra fondarsi su categorie di giudizio e su attitudini prestabilite. La dinamica evolutiva è evidente, anche se spesso i cambiamenti sono appena percettibili, mentre la staticità dell’adulto è in realtà solo apparente, in quanto i criteri per procedere sono continuamente sottoposti a valutazioni e critiche, e quindi vengono continuamente modificati.
«Curare» è quindi uno dei modi per definire la relazione che si stabilisce tra un bambino e l’adulto o gli adulti di riferimento, visto che chi si trova in una fase di evoluzione non possiede ancora tutte le caratteristiche della persona adulta e non è in grado di accudire se stesso. I genitori non hanno solo in cura il neonato, il bambino in età prescolastica e scolastica, ma anche l’adolescente; il tipo di cura varia continuamente con lo svilupparsi di nuove e diverse esigenze. Chiunque sostituisca i genitori assume un ruolo di curante. La cura concepita come presa a carico, come assunzione di responsabilità verso il bambino non richiede necessariamente un contratto, un consenso; spesso è data come implicita, necessaria, evidente, ovvia. Queste considerazioni che ovviamente potrebbero essere approfondite, sono sufficienti per giustificare una grande cautela nell’uso del termine di «cura» quando la relazione tra adulti e bambini è messa in pericolo da comportamenti lesivi, da abuso, trascuratezza, negligenza o incompetenza. Evidentemente il concetto di cura si arricchisce di connotazioni diverse nel contesto della malattia, poiché sono chiamati in causa «i curanti». Il genitore o i suoi sostituti, che supponiamo competenti per quanto riguarda la presa a carico nell’ambito di una relazione genitoriale, devono delegare a qualcun’altro la cura di un disturbo, di una malattia, di alterazioni dello stato di salute.
Curare per capire, per diagnosticare, per valutare; curare per alleviare, per sostenere, per aiutare: l’interferenza tra il ruolo del genitore e quella del curante è evidente. La malattia trasforma il bambino in vari modi e crea nuove esigenze: il bambino non deve più semplicemente essere «curato» nella relazione famigliare che protegge, sostiene, stimola, ma piuttosto in quella inabituale richiesta dai sintomi, dal disturbo, dall’alterazione.
La relazione di fiducia necessaria nella relazione tra persona curata e curante si complica nella situazione del bambino: la fiducia del bambino è riposta nei genitori, che instaurano una relazione con il curante. Si crea così una delicata relazione, dove la comunicazione può essere mediata in vari modi, e dove molti elementi di dubbio si possono insinuare. Se solo i genitori possiedono l’istinto di curare i propri figli, come è possibile trasmettere questa facoltà? La relazione tra i genitori e i figli appare difficilmente delegabile. Un bambino comunica con un linguaggio particolare, che è quello del suo particolare momento evolutivo: come è possibile tradurlo, interpretarlo in modo adeguato?
Queste domande rappresentano alcune delle sfide per chi cura in ambito pediatrico. Un contesto di presa a carico professionale presuppone che tra curante e bambino si stabilisca una relazione adeguata all’età evolutiva e che utilizzi i canali di comunicazione adatti. Le soglie di incomprensione devono essere superate con abilità da parte del «curante professionista» e con l’aiuto del genitore, «curante vero». La relazione privilegiata tra i genitori e i figli serve ai curanti per interrogare, aiutare, sostenere il bambino e deve quindi essere sostenuta nel contesto di presa a carico.

Valdo Pezzoli

«Nasce in laboratorio la vita artificiale»
rMH 6


La Repubblica
7 ottobre 2007  

«Dopo aver imparato a leggere il codice genetico, ora stiamo imparando a scriverlo. Questo ci dà la capacità ipotetica di fare cose che non avremmo mai potuto prendere in considerazione prima». Queste le parole del ricercatore Craig Venter, uno degli artefici del sequenziamento del genoma umano e direttore dell’omonimo Craig Venter Institute di Rockville (Maryland, Stati Uniti), all’annuncio della creazione della prima forma di vita artificiale: un batterio che è il primo essere vivente ad aver ricevuto un Dna completamente nuovo. La costruzione di un cromosoma umano non è una novità assoluta, ma questo nuovo passo in avanti avvicina Venter alla possibilità di produrre batteri artificiali che permetteranno di affrontare e magari risolvere alcuni problemi ecologici, soprattutto legati all’energia. Secondo Luca e Francesco Cavalli-Sforza: «è impossibile enumerare, o anche solo prevedere, tutte le possibili applicazioni della creazione di microrganismi artificiali, ma non bisogna dimenticare che il loro impiego in medicina potrebbe rivelarsi fondamentale per combattere microrganismi patogeni contro cui gli antibiotici stanno perdendo efficacia». Per Umberto Veronesi l’importanza della scoperta invece è più «filosofico-ideologica» che scientifica: «stiamo parlando per la prima volta nella storia della possibilità di creare la vita umana. E qui da una parte il mondo della scienza esulta perché celebra il trionfo della razionalità; dall’altra si apre il dibattito all’interno del mondo religioso e teologico».
Scoperte di questa entità, sia scientifica sia ideologica, ripropongono la problematica etica di come l’umanità può e deve utilizzare i risultati della scienza. I dibattiti si animano e le opinioni divergono fra loro. Veronesi ripropone nel suo articolo «una camera Alta per la scienza: un gruppo di intellettuali indipendenti esperti nelle scienze, nella filosofia, nel diritto, nell’economia, nella sociologia, nella teologia, che esamini i problemi con serietà per poi sottoporre le loro conclusioni ai governi, e che abbia un peso nelle agende politiche.»

Martina Malacrida

«Kornberg. L'uomo che scoprì il manuale della vita»
rMH 6


La Repubblica
30 ottobre 2007  

Arthur Kornberg muore il 26 ottobre 2007 all’età di 89 anni in California. Professore di biochimica alla facoltà di Medicina dell’Università di Stanford in California, premio Nobel per la chimica nel 1959 per la scoperta dell’enzima DNA-polimerasi. Un enzima capace di sintetizzare il DNA, costruendo la copia di DNA pezzo per pezzo scegliendo le molecole giuste da una miscela dei quattro nucleotidi (A, C, G, T). Kornberg nasce a New York nel 1918, lavora nel negozio di ferramenta del padre fino a 9 anni e poi studia molto bene e riesce a iscriversi a medicina, cosa non facile per uno studente ebreo. Professore a St. Louis (Missouri), accettò di dirigere, nel 1958, il dipartimento di Biochimica della Facoltà di medicina a Stanford solo a condizione «che fossero assegnate cattedre anche a i suoi cinque assistenti». Gli autori dell’articolo, Luca e Francesco Cavalli-Sforza, ricordano un episodio che dà un’idea di chi fosse Kornberg: «quando consegnò all’editore la sua autobiografia (Per amore degli enzimi), questi gli chiese con stupore, dopo aver letto il manoscritto: – Non hai parlato del Nobel! Perché? Risposta: – Perché non ha fatto una gran differenza».

Martina Malacrida

«Malattie innominabili»
rMH 6


Il Sole 24 ore
16 dicembre 2007  

Ci sono patologie che portano denominazioni date loro dai nazisti, ad esempio la «sindrome di Reiter» che è stata ribattezzata «artrite reattiva». Il giornale francese «Le Figaro» propone di effettuare una bonifica di tutta la nomenclatura medica, cancellando gli eponimi usati per denotare alcune malattie che ricordano medici che aderirono al nazismo. Il problema degli eponimi nazisti si discute, in medicina, da un decennio, senza aver trovato ancora una soluzione condivisa e definitiva.
Scrive Gilbero Corbellini nel suo articolo «Se le società mediche si coordinassero per fare una trasparente pulizia morale della nomenclatura medica, ciò avrebbe un valore altamente educativo, soprattutto per le giovani generazioni di medici che si stanno formando spesso senza neppure ricordare i crimini compiuti nel passato da alcuni loro colleghi legati al nazismo e fascismo.»

Martina Malacrida

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